martedì 29 aprile 2014

STARBOOKS MAGAZINE: IL MAGAZINE DI BETTY CROCKER





Dimenticate Martha Stewart.
E soprattutto i suoi tentativi di mostrare agli americani come cucinare in modo più sano.
Più naturale.
Qui siamo se non all'opposto, quasi.
Betty Crocker, l'istituzione made in USA che da decenni insegna a cucinare pur senza esistere nella realtà, sa il fatto suo.
Sa cosa piace al suo pubblico.
La sua rivista esce sei volte l'anno, ed ogni volta il tema è diverso: i cupcakes, le migliori torte di compleanno, la cucina delle feste e così via.
Tonnellate di zucchero, burro, uova.
Come si conviene, visto l'argomento.
Ma soprattutto tonnellate di pubblicità ad i suoi prodotti.
Difficile, ormai, trovare una ricetta che non preveda uno dei tanti preparati per torte, glasse e così via.
Al primo posto di certo il famosissimo Bisquick, che promette di farci realizzare dolci di ogni tipo solo mescolando pochi ingredienti alla polvere in questione.
Quindi mentre Martha Stewart cerca di insegnare che non serve un corso da chef per realizzare un piatto decente e volendo abbastanza sano, Betty Crocker punta a quella fetta di mercato che non ha tempo, o voglia, o alcuna basica competenza per mescolare due uova: non state a pesare, montare, girare.
Con la polvere magica il risultato è garantito.
E con molta lungimiranza ha creato gli stessi mix in versione gluten free, in modo da accaparrarsi anche i celiaci senza tanta voglia di sperimentare: basta torte gnucche e pani duri, con i favolosi mix senza glutine il risultato è perfetto.
Quanto alle ricette "from scratch" ovvero senza uso dei preparati,  troviamo una parata di tutto ciò che è tanto amato oltreocano, specie nei dolci con, tanto per nominarne uno, l'onnipresente burro di arachidi.
Quanto ai piatti salati, la scelta è vasta con un occhio sempre a consigliare ricette semplici ed alla portata di tutti, spesso divise per area geografica di appartenenza, e non troppo costose.
Gli everyday meals sono spesso piatti unici, molto ricchi, anche se da tempo esiste sul sito una rubrica di piatti light molto visitata, affiancata da non moltissimo anche da una sezione vegan.
Insomma, non che noi italiani si possa apprezzarne ogni pagina, ma si trovano comunque spunti interessanti e spesso quelle furbate, ovvero ricette geniali nella loro semplicità, che tanto care sono alla sottoscritta :)

La ricetta che vi propongo come esempio proviene da un numero della rivista dedicato, manco a dirlo, ai brownies.
E non solo c'è il burro di arachidi che anche da noi ormai riscuote un certo successo, ma anche le "peanut butter chips" ovvero delle caramelle tipo Smarties...ovvero un guscio di cioccolato con dentro il suddetto ingrediente...se le trovate, attenti, smettere di mangiarle prevede un autocontrollo fuori dal comune.



PEANUT BUTTER SWIRL BROWNIES
da Betty Crocker Magazine
per una teglia quadrata da 20 cm

126 g di zucchero
90 g di brown sugar
113 g di burro
2 cucchiai di latte
2 uova intere
90 g di farina
un pizzico di sale
mezzo cucchiaino di lievito per dolci
30 g di cacao amaro
60 g di burro di arachidi
30g di gocce di cioccolato
30 g di peanut butter chips


Ammorbidire il burro a temperatura ambiente, quindi unirlo ai due zuccheri ed il latte usando le fruste elettriche.
A parte mescolare farina, sale e lievito quindi unirli al composto di burro.
Dividere quindi l'impasto a metà, ad uno aggiungere il cacao e le gocce di cioccolato, all'altra il burro di arachidi e le chips.
Versare nella teglia imburrata ed infarinata a cucchiaiate, alternando i due impasti a formare più o meno una scacchiera.
Quindi con la lama di un coltello mescolare delicatamente i due composti fino ad ottenere un effetto marmorizzato.
Cuocere in forno preriscaldato a 180 gradi per circa 30-35 minuti al massimo.
Far freddare un'ora prima di tagliare in 16 quadrotti.

NOTE

- la ricetta è molto buona e riesce senza problemi. Lo zucchero è in effetti parecchio e può essere diminuito un po' senza problemi. Il tempo di realizzazione è minimo, e la semplicità disarmante per un risultato eccellente.


lunedì 28 aprile 2014

IL BON TON PRIMA DI CSABA: COLETTE ROSSELLI OVVERO DONNA LETIZIA



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di Simonetta Nepi- Glu. Fri.
Secondo la Treccani si definisce Stile:
b. Signorilità di modi, discrezione e correttezza nel comportarsi, sobrietà nel vestire: si usa dire che gli Inglesi hanno s.; quella signora ha s., un suo s., uno s. assolutamente personale; è una questione di stile; è una caduta di s., di comportamento sgradevole e sgarbato; ciò che li persuadeva ... all’indulgenza nei riguardi di Fadigati ... era appunto il suo s., intendendo per s. in primo luogo una cosa: la sua riservatezza, il palese impegno che aveva sempre messo ... nel non dare scandalo (Bassani); lo stile è l’uomo (fr. le style c’est l’homme, propriam. le style est l’homme même, frase pronunciata da G.-L. Buffon all’Accademia di Francia nel 1752), espressione spesso usata per significare che dai più piccoli particolari è possibile giudicare il carattere di una persona nel suo complesso. 
E Classe:
Dal senso generico di categoria hanno origine le locuz.: di classe, di gran c., di ottima qualità, di gran pregio: un pittore, un avvocato, un corridore di c., una donna di c., un abito di c., un liquore di gran c. (con sign. sim., ma spesso ironico, di prima c.: un chirurgo di prima c.; anche con senso peggiorativo: un mascalzone di prima c.); fuori classe, eccellente, straordinario: v. fuoriclasse.


Stile e classe, queste sono le cifre di Csaba dalla Zorza, che con mia grande, immensa sorpresa riscuote un grande successo proponendosi come perfetta padrona di casa stile anni ’50. Con il suo nome esotico e aristocratico e i conclamati diplomi veicola attraverso il cibo uno stile di vita (o meglio un life style perché siamo nel 2014 e non nel 1954 e l’anglofonia si impone).
Csaba sfodera ninnoli d’argento, rose a colazione, champagne nei pic nic, sussurri e mani perfettamente pulite mentre si impasta. Ha una camicia bianca impeccabile, come Martha Stewart, ma quella di Martha non ha l’implacabile sparato apprettato e inamidato ma una pragmatica morbidezza di una donna che lavora e che non si preocupa dello stile ma dell’efficienza domestica in cui ingloba anche un modello estetico che, alla fine, la trasforma in una persona di classe.
Csaba fa sognare, fa sognare come un romanzo rosa, fa sognare di avere un’aristocrazia che l’Italia non ha mai avuto, capace di far filtrare un certo stile di vita verso tutti i ceti sociali, come in Francia o in Gran Bretagna dove persino i punk sono diventati icona modaiola e la Regina si lancia con il paracadute con quel gran fusto di 007.
Csaba fa sognare giovani donne che forse hanno dimenticato che di maestre di classe e stile in Italia ne abbiamo avute varie, che hanno aiutato a fomentare l’evoluzione delle donne da un punto di vista molto particolare, che poteva sembrare antiquato e retrogrado, ossia il galateo, le cosiddette buone maniere, ma che sotto sotto nascondeva un messaggio di autostima.

irene brin- brunella gasperini

Cito tra tutte Brunella Gasperini che nel 1975, in piena era femminista scrive un Galateo che come dice lei è:
Più che un libro di galateo, questo si può dire un libro di controgalateo…. il nuovo galateo vuol dire sovvertimento, distruzione, linciaggio del vecchio galateo? Ma no... vuol dire se mai revisione, aggiornamento, discussione, demistificazione... Vuol dire cercare di sostituire buonsenso, spontaneità, elasticità, umorismo a quelle rigide e ormai logore sovrastrutture convenzionali che intralciano, invece di agevolarli, i rapporti umani...».
Oltre a Brunella, che vi invito a scoprire e leggere per l’ironia, l’umore e il buon senso femminile, una grande signora dell’eleganza e dello stile è stata Colette Rosselli, alias Donna Letizia, la quale, più di Brunella, si occupa di cibo e galateo a tavola.
Colette Cacciapuoti Rosselli ha scritto nel 1960 un libro che forse si trova ancora in tantissime case italiane: è “Il saper vivere” di Donna Letizia (Arnoldo Mondadori Editore), di cui disegna anche le illustrazioni.
L’autrice nasce in seno a una famiglia borghese e benestante a Losanna nel 1911 da padre napoletano e calvinista (!) e madre inglese (!) e cresce a Firenze. Laureata in Letteratura a Losanna, si sposa con Raffaello Rosselli, cugino dei perseguitati Carlo e Nello, dal quale si separa nel 1940.
Negli anni ’40 pubblica libri illustrati per bambini: Il primo libro e Il secondo libro di Susanna, Collolungo, Questa è Margherita e Il Cavaliere Dodipetto. Illustra inoltre alcune edizioni dei primi anni cinquanta di libri di fiabe e narrativa. Nel 1951 disegna le illustrazioni del Il diario della signorina Snob di Franca Valeri, altro grande mito dall’ironia intelligente e graffiante. 


Nello stesso periodo collabora come illustratrice con prestigiosi quotidiani e riviste internazionali come Vogue, Harper's Bazaar e il New Yorker.
Gli anni ’50 irrompono con un boom economico in cui si dà un violento scossone alle strutture sociali e si affaccia una classe media che passa, come dice Colette, dal “colletto di lapin alla mantellina di visone”, dalla bicicletta alla motorizzazione di massa e sorgono i dubbi legati al nuovo status: che fare per “essere all’altezza” in ogni circostanza ? Sono quesiti non solo legati all’etichetta, ma spesso veri e propi dubbi esistenziali, incertezze sui modelli di comportamtento.
I giornali soddisfano le inquietudini dei lettori publicando rubriche di Galateo.
Racconta Colette in un’intervista del 1984: «In quel periodo sulla Settimana Incom Irene Brin teneva una rubrica di bon ton molto sofisticata, dai timbri letterari, estremamente raffinati, un po' proustiani, firmata Contessa Clara. Arnoldo Mondadori mi propose di scrivere qualcosa del genere, ma in cui si insegnassero veramente le buone maniere. Era l' epoca dei noms de plume blasonati e raggelanti, provinciali e tutti fasulli, Duchessa di Bedford, Lady Troubridge. Mondadori voleva darmi un nome del tipo marchesa non so come; io dissi che di titoli nobiliari non volevo saperne» e così nacque Donna Letizia.
Donna Letizia dal 1953 nella rivista Grazia e dal 1978 nella rivista Gente, con la rubrica La Posta del cuore risolve come apparecchiare per il tè, come rivolgersi a un arcivescovo o a un principe ereditario, come utilizzare le forchette da ostriche, come evitare gaffe, come essere elegante in ogni circostanza e suggerisce anche il tipo di vacanza da fare per trovare un buon partito alla figlia (con mooolta ironia), e che fare (o non fare) per gestire la suocera impicciona.
E anche lei fa sognare, le padrone di casa sognano di ricevere ambasciatori, apparecchiano con gran dispendio di piatti e posate e tutti si sentono un po’ più vicini al mondo del conte Max.

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Le lettere arrivano a centinaia da uomini e donne, le risposte sono ironicamente serie, scritte con un italiano di una leggera eleganza, a volte sono pungenti a volte benevole, sempre con molto ritmo: «Per tutti ho cercato di trovare la parola giusta, e a molti piaceva proprio quel mio cocktail di humour e serietà, quella mia ironia talvolta pungente ma molto più spesso benevola, di fioretto e mai di spada, così diversa dall'amaro sarcasmo degli italiani».
Come questa perla:Cara Donna Letizia, cosa ne pensa di un marito che propone alla moglie di invitare nel letto coniugale un’amica da poco abbandonata dal fidanzato, sostenendo che con questa iniziativa ognuno darebbe il meglio di sé: prova di amicizia da parte della moglie, larghezza di vedute da parte del marito, gratitudine da parte dell’amica”.
Risposta: “Presto un fazzoletto: tante eccelse virtù commuovono
Ha insegnato a «non arricciare il mignolo a coda di volpino», ad aborrire stuzzicadenti e calzini corti e citava Montesquieu, Kipling, il barone de Rothschild e Edoardo VII.
Ad esempio insegna come mangiare il paté (un piatto a caso eh…): “ Solo il patè in crosta si può mangiare con coltello e forchetta. Tutti gli altri patè, da quello di fegato a quello di campagna, non richiedono l'uso del coltello. Il patè di fegato va servito insieme al pane tostato”
Ha tanti consigli anche per gli uomini e per le donne che devono essere sempre vigili:
Molti uomini considerano le buone maniere come un soprabito da indossare al momento di uscire di casa e da appendere all'attaccapanni appena rientrati. Ecco il cav. Rossi, per esempio: amabilissimo in società, servizievole in ufficio, brillante al Circolo e al caffè. Tra le pareti domestiche, musone, taciturno, iracondo. Maleducato, insomma. Colpa in gran parte sua, ma colpa anche della signora Rossi (consorte) che fin dall'inizio non ha saputo farsi rispettare e colpa soprattutto della signora Rossi (madre) che quand'era bambino gli ha lesinato scapaccioni e buone norme di educazione: beneducati non si nasce, si diventa”
Colette aveva definito alcune tipologie femminili come la “signora Casachiesa” e la “signora Semprelesta” o la micidiale ”Signora che vuole arrivare”: dice“A me piace l’umorismo, mi piace sorridere anche di me stessa, e trovo che sia un esercizio utilissimo considerare lucidamente i propri errori, non per moralismo, ma perché è l’unico modo per non invecchiare nell’amarezza, nell’acidità, inveendo contro il nostro prossimo o il nostro destino”.

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Insegnava il bon ton perché era interiorizzato nella sua forma di essere, ma sicuramente non era un personaggio conformista: era una donna indipendente, che si è ribellata alle condizioni economiche precarie della Mondadori e non ha più pubblicato illustrazioni se non per i suoi libri, si è separata negli anni ’40, ed è stata madre separata in epoca anteguerra. E’ stata la compagna di Indro Montanelli che ha sposato dopo 25 anni di relazione nel 1974 e comunque hanno vissuto entrambi affettuosamente in case e città diverse: dichiara “Siamo due scapoli che si rinfacciano d'avere perso la “vera” (mai portata da entrambi), due solitari (io per consuetudine, lui per natura) legati da un'autentica stima e da un interesse, non partecipe l'uno per l'altro. Io non partecipo al suo interesse per la politica o il calcio, lui non partecipa a certe mie scelte di letture o di immagini. I nostri incontri sono come viaggi all'estero che, ogni tanto, è bello fare».
E’ morta nel marzo del 1996, non prima di aver fatto promettere a Indro di procurarle una dolce morte nel caso fosse rimasta in stato vegetativo, confermando il suo carettere indipendente e anticonformista, e alla fine è morta di ictus e Indro non ha avuto bisogno di soddisfare il suo Desiderio.
Rileggere oggi il libro Saper vivere, che si trova facilmente in un’edizione della BUR del 2007 (!), è fare un viaggio verso un’Italia ingenua, remota e nostalgica, molto datata in alcuni aspetti, soprattutto per quanto riguarda la relazioni tra sessi, e decisamente assolutamente lontana quando si parla di cappellini e guanti.
Ma resta l’eleganza, lo stile, lo sguardo ironico e distante che vede il tutto attraverso la ricerca di una convivenza sociale piacevole, rispettosa e autorispettosa: “ In trent' anni mi sono passati davanti agli occhi vari periodi storici…. Sì, tutto è cambiato. Tranne una cosa: la solitudine di fondo, l'ansia, l'angoscia, il senso di incertezza, la paura di sbagliare”.
Colette fa sparire nel 1984 Donna Letizia, la fa uscire di scena come consigliava lei “cinque minuti prima che sia troppo tardi”, e dichiara “Donna Letizia è morta e sepolta”.
Donna Letizia abbandona il campo in quegli anni ’80 in cui l’estetica dei nuovi ricchi , la grossolanità e l’ostentazione soppiantano l’eleganza e l’ironia, quando lo stile di vita un po’ conservatore, ma elegante e discreto sparisce e la vecchia e consolidata borghesia ormai ha perso se stessa, si è arresa e si è adattata ai nuovi modelli consumistici e morali.
Colette ha fatto sparire Donna Letizia, ma le paure e i dubbi che lei citava esistono ancora, da Monsignor della Casa in poi ogni generazione cerca di adattarsi e conformarsi allo stile delle classi più agiate o più in vista, di imitarlo, di sognarlo.
Ogni epoca ha la sua Donna Letizia, a noi tocca Csaba…

Fonti
Colette Rosselli, Saper vivere di Donna Letiza, BUR
Il grande libro della casa, a cura di Donna Letizia, Mondadori
Archivio storico del Corriere della Sera
Rai storia
La Repubblica- ricerca
Il Giornale (archivio)












giovedì 24 aprile 2014

CSABA DALLA ZORZA- BON MARCHE': TIRIAMO LE SOMME



"Cavo, pervchè dici queste pavole avcane?"
"Ar cane? Che cane? A te, je dico... mica ar cane"


A scanso di pericolosi fraintendimenti: a me, Csaba Dalla Zorza non è punto antipatica. Non regolo le mie giornate sui suoi programmi televisivi, ma se capita che mi imbatta in uno di questi, è facile che non cambi canale e che lo segua fino alla fine, e pure senza sdradicare il crocifisso dal muro ed invocare anatemi sulla signora. E dirò di più: se mai potessi diventare direttore della TV per un giorno, non è sulle sue produzioni che si abbatterebbe la mia scure: la lista di quello che cancellerei è talmente lunga - dalle urla in TV alle sfilate di tette&culi, passando per i divismi delle ragazzette e le tempeste ormonali di Villa Arzilla- che prima di arrivare alla voce "Csaba" sarebbe finito il tempo a disposizione. 
Da qui a dire che impazzisco per lei, però, ce ne passa: e non perché sia una zotica fatta e finita o rosichi di invidia perchè la signora riesce laddove io ho miseramente fallito (tipo far indossare ai figli completini da piccoli lord o convincere il marito ad intagliare una zucca per halloween, per dire): semplicemente, perchè percepisco in maniera immediata e lampante l'aura di finzione che circonda il suo personaggio. Che, al pari di tutti i personaggi televisivi, è stato costruito a tavolino, sulla base di strategie precise, elaborate su determinati settori di pubblico e a quelli direttamente rivolti. 
Il meccanismo è talmente palese che non sfugge neppure agli occhi di una come me, che dell'esame di sociologia ricorda solo lo sguardo tenebroso del suo professore: quello che Csaba propone, cioè, è un'illusione di stile di vita alto, nella misura in cui la sua trasmissione è affidata alla TV, con tutte le conseguenze che questo comporta, la più importante delle quali è quella di determinare una sorta di tensione fra il personaggio e lo spettatore che anela ad essere tale e quale il suo idolo. Perchè questo funzioni in TV (che, ricordiamo, è il regno della "medietà" e quindi- absit iniuria verbis- anche della mediocrità) è fondamentale che si rimanga equidistanti dai due estremi, quello dell'ossessione ("voglio essere come lei, a tutti i costi") e quello della frustrazione ("non ci riuscirò mai"): l'obiettivo, semmai, è quello di mantenere la distanza fra personaggio ideale e spettatore reale, concedendo però l'illusione narcotizzante di poterla colmare, senza modificare di fatto il proprio status ma relegando l'identificazione a qualche oggetto o qualche situazione, dalla passeggiata all'aria aperta ai giardini del centro commerciale al set di candele profumate Dromlik. : "Insomma, gli si chiede di diventare un uomo con il frigorifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com'è aggiungendo agli oggetti che possiede un frigorifero e un televisore;in compenso gli si propone come ideale Kirk Douglas o Superman. L'ideale del consumatore di mass media è un superuomo che egli non pretenderà mai di diventare, ma che si diletta a impersonare fantasticamente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppur pensare di possederlo un giorno". 
Queste cose le scriveva Umberto Eco, cinquant'anni fa, in un saggio intitolato Fenomenologia di Mike Bongiorno, in cui sosteneva che le ragioni del successo del presentatore andassero ricercate nell'aver annullato questa tensione, fra sogno e realtà, fra dover essere ed essere. Mike Bongiorno faceva gaffes, sbagliava le parole, non si vergognava di essere ignorante né provava il bisogno di istruirsi, determinando in questo modo nello spettatore una sorta di immediata identificazione, in nome della mediocrità. 

Con il personaggio di Csaba, dicevamo, si ripristina il punto di partenza, quello della tensione verso un ideale il cui aggancio con la realtà è dato da una serie di oggetti e circostanze che devono rigorosamente essere alla portata di tutti:  non a caso, il monito costante di Csaba è il ritorno alla vita semplice, alle colazioni in campagna con una fetta di pane e olio, la spesa al mercato, le gite nei boschi (tutte cose che chiunque può ottenere) fatto però in location da sogno -casolari toscani, mercati parigini- e con mise da sogno -accessori firmati e splendidi abiti da sera-  determinando così quello stacco che permette al suo pubblico di continuare a guardare a lei come ad un'icona di stile e al suo personaggio di resistere sulla cresta dell'onda. 
Questo meccanismo è riportato pari pari anche nei suoi libri, senza nessuna differenza: ed è stato questo il punto dove noi Starbookers siamo palesemente franate, senza nessuna possiblità di risollevarci, se non quando era troppo tardi per tornare indietro. Nei libri di Csaba, cioè,  le ricette sono una di quelle "passerelle" che permettono i meccanismi di identificazione coi suoi lettori: Lei insiste costantemente sull'aver preso un diploma da chef al cordon Bleu (il sogno irraggiungibile), ma propone ricette di una semplicità disarmante (l'oggetto raggiungibile da tutti)
Ora,  lo Starbook è tutto fuorchè un'operazione commerciale. Non ha nulla di costruito a tavolino, non indulge in moine verso il suo pubblico, non ricerca la compiacenza degli editori, non soggiace alle regole di mercato. Noi non siamo personaggi, ma persone , ed è proprio la nostra esperienza di persone (reali, cioè, non tenute in vita solo per il tempo necessario ad una comparsata virtuale) che ha dato vita a questo progetto che trova nella concretezza, nella chiarezza e nella costante aderenza alla realtà le ragioni della sua efficacia. Di conseguenza, i parametri di valutazione che noi usiamo sono scevri da qualsiasi sovrastruttura mediatica, da qualsiasi strategia di mercato. Se compro il libro di una chef del Cordon Bleu, cioè, mi attendo che ci siano ricette adeguate a questo titolo, non hot dog fait maison, laddove il "fatto in casa" è relativo esclusivamente all'infilare un wurstel in un panino o un "burro fresco" è quello che ho appena tirato fuori dal frigo. 
Tuttavia, siccome siamo oneste, abbiamo valutato le ricette con il nostro solito metro: se riescono, sono promosse, se non riescono sono bocciate. 
L'errore è stato qui. 
Nell'aver utilizzato un metodo di giudizio basato su parametri reali ad un libro che ha nell'illusione e nel sogno la sua allure. 
Col risultato di esserci attaccate ai dettagli errati (che ci sono, sia chiaro- e in molti casi son gravi), quando sarebbe stato molto più rispettoso, nei confronti di tutti e in primo luogo dei nostri, interrompere la rassegna e dire che, per una volta, lo show non doveva andare avanti, perchè questo libro non fa per noi. 
Si potrà obiettare che non è un ricettario tout court, che il "living" è un concetto più ampio, che il prezzo di copertina è adeguato ad un prodotto costoso, vista la cura del contenitore e mille altre argomentazioni di cui prendiamo atto, senza però modificare di una virgola le nostre posizioni: e cioè, che quelli che certuni chiamano "sogni", per noi son prese in giro. E pure solenni. 
Adieu

mercoledì 23 aprile 2014

FILETTO ALLA SENAPE CON CHAMPIGNON





Eccomi nuovamente, con mia somma gioia, a far parte della squadra dello Starbooks e a testare il libro di questo mese Bon Marché di Csaba Dalla Zorza. Ecco, forse non dovrei dirlo, ma quando ho saputo qual era il libro di aprile ho avuto quasi un mancamento. Lei potrebbe anche starmi simpatica, fosse solo per quella maniera tutta sua molto curiosa di proporsi, però io il suo modo di cucinare non l’ho mai capito. Certo ha stile, come apre il forno lei nessun’altra (anche se lo sportello cigola come quello di mia suocera, ma forse è anche quello un dettaglio studiato ad arte), come guarda convinta e pacata in camera, come fa saltare le verdure in padella, come si sistema il grembiule, sembra che ogni gesto sia studiato nei minimi dettagli. Si resta incantati a guardarla perdendo di vista la cosa più importante: la ricetta. E così il piatto finale non rimane impresso, non si capisce spesso nemmeno bene quello che è stato cucinato. La stessa sensazione che ho avuto quando ho saputo qual era il libro del mese; sì, perché sono andata in libreria per comprarlo, giuro, ero animata dalle più buone intenzioni, ma dopo averlo sfogliato me ne sono tornata a casa con un libro sulla cucina cinese… No, non sono prevenuta, mi son fatta la domanda e mi son data la risposta, cercando di essere obiettiva, alla fine della ricetta le motivazioni del mio giudizio.

FILETTO ALLA SENAPE CON CHAMPIGNON
da Bon Marché, Csaba Dalla Zorza
 
Ingredienti per due persone
350 g di tournedos di filetto di manzo
10 champignon bianchi
100 g di funghi pioppini
15 g di burro
100 ml di panna liquida fresca
2 cucchiaini di senape di Digione forte
sale e pepe nero macinati al momento

Metti il tournedos di filetto su un piatto, salalo e pepalo su tutti i lati. Accendi il forno a 160°C. Prima di cuocere la carne, lava velocemente i funghi sotto l’acqua fredda corrente e taglia i più grandi in due. Scalda una padella in acciaio con il burro sino a che sarà fuso, poi saltaci dentro i funghi, cuocendoli a fiamma vivace per 3 minuti. Pepali un po’, metti un coperchio a misura e cuoci ancora per altri 3-4 minuti. Poi trasferisci i funghi in un piatto e asciuga la padella con un pezzo di carta da cucina, senza lavarla. Salali e tieni i funghi in caldo.
Scalda di nuovo la padella su fiamma media. Mettici dentro la carne e cuocila, senza toccarla, per 3 minuti. Girala e cuoci per altri 2 minuti su ciascuno dei lati, inclusi i lati corti. Tienila sollevata con delle pinze se necessario o due cucchiai – ma non forarla mai, altrimenti farai fuoriuscire i succhi.
Quando avrai finito di sigillarla così, trasferiscila in una piccola casseruola da forno e coprila con della carta stagnola. Mettila in forno e lasciala cuocere 5-7 minuti (così rimarrà al sangue dentro).
Rimetti la padella sul fuoco a fiamma molto bassa. Versaci dentro la panna liquida e la senape, poi mescola bene con un cucchiaio di legno, grattando bene il fondo. Cuoci per 1 minuto appena, giusto il tempo di scaldare e amalgamare insieme i due ingredienti.
  Affetta la carne su un tagliere di legno. Disponi le fette nei piatti, irrorale con la salsa alla senape, pepale leggermente e poi servi con i funghi come contorno.

NOTE:
parto subito con tre note positive:
avevo paura che salare la carne prima della cottura potesse farle perdere liquidi e invece non è successo, anzi, ho scoperto che questo è un metodo assolutamente da seguire per una buona cottura soprattutto se senza grassi
il metodo di cottura dei funghi è perfetto, seguendo alla lettera tempi e procedimento si ottengono degli champignon molto saporiti, ben rosolati all’esterno, poco acquosi e di una certa consistenza
finalmente ho utilizzato quella bellissima padella d’acciaio che giaceva ancora intonsa nello scaffale e che mi ha dato grossissime soddisfazioni per quanto riguarda la cottura.
e poi quelle negative:
Il filetto secondo me andava legato, senza legatura tende ad aprirsi e non cuoce in maniera uniforme, ma forse sono io che sbaglio, d’altra parte io non mi sono diplomata a Le Cordon Bleu, però quando lo preparo alla mia maniera lo lego sempre e rimane molto ben compatto durante la cottura, cosa che permette alla carne di cuocere più uniformemente.
 
Io ho sempre saputo che i tournedos sono delle fette di filetto alte circa due o tre centimetri e rotonde tratte dalla parte centrale del filetto (il cuore del filetto, quella parte che è appunto più rotonda e in cui il filetto non è né troppo grande né troppo piccolo come invece è nella parte finale), invece Csaba intende un pezzo intero di filetto. Negli ingredienti dice “ 350 g di tournedos di filetto di manzo” e se io non avessi letto prima la ricetta sarei potuta cadere nell’errore di acquistare delle fette di filetto già tagliate o di tagliare a fette il filetto prima di cuocerlo. Forse in Francia la parola tournedos sta semplicemente ad indicare una parte determinata del filetto e se così fosse, visto che la parola è proprio francese, sicuramente quella sarebbe l’accezione corretta, però secondo me avrebbe dovuto trovare un altro modo per descrivere il pezzo di carne da utilizzare in maniera che fosse facilmente comprensibile a tutti (ma forse i francesismi sono necessari per non farci dimenticare che il libro è un omaggio ai ricordi del periodo parigino dell’autrice), anche perché nel descrivere tutto il resto è invece molto precisa (anche troppo).
Si dice di mettere la carne, dopo averla cotta in padella, a cuocere in forno a 160° coperta di carta stagnola per 5-7 minuti, ma in questo modo la carne non continua a cuocere se la si mette “in una piccola casseruola da forno” che non è stata precedentemente scaldata (cosa che non viene detta).
 
Si dice anche che la panna con la senape deve cuocere pochissimo e a fiamma bassa ma se la si mette come indicato nella padella dove ha appena cotto la carne (per ben tredici minuti a fiamma media), essendo quella stessa padella d’acciaio - che quindi mantiene a lungo il calore - bisogna prima aspettare che si raffreddi (cosa che non viene detta).
Il libro si chiama Bon Marché, che letteralmte significa a buon mercato. La ricetta, per due persone, prevede l’utilizzo di ben 350 g di cuore di filetto di manzo, uno dei tagli più costosi in assoluto. E dice pure “se decidi di preparare questo piatto, investi qualche euro in più per andare in una buona macelleria” consiglio che ho seguito (ma lo avrei fatto ugualmente) spendendo quasi 20 euro. E’ vero che poi dice “se invece preferisci risparmiare, piuttosto che un cattivo filetto di manzo prendi un ottimo filetto di maiale, è molto buono, costa un terzo dell’altro e non noterai neanche molta differenza”. Non noterai neanche molta differenza??? Ma come è possibile? Chiunque in vita sua abbia assaggiato il filetto di manzo e il filetto di maiale sa che in comune hanno solo il nome. Per quanto riguarda il sapore sono invece due cose completamente diverse. E poi ho anche qualche dubbio sulla cottura. Avrei quasi avuto voglia di provare la ricetta anche con il filetto di maiale per vedere come veniva. Certo è più sottile di quello di manzo, quindi probabilmente cuoce di più nello stesso tempo, però io credo che rimarrebbe troppo al sangue seguendo i tempi indicati nel libro e questo per un filetto di maiale, la cui cottura perfetta è quella che lo lascia leggermente rosato ma comunque cotto (anche per questioni igieniche oltre che di gusto), non è per niente positivo.
La ricetta si chiama “filetto alla senape” ma di senape per i miei gusti ce n’è troppo poca, due cucchiaini su 100 ml di panna si sentono poco, il sapore che predomina è quello della panna. 
 
Csaba non dice quale sarà, seguendo i tempi di cottura da lei indicati, il grado di cottura del filetto, pertanto non si saprà, fino al momento del taglio della carne, se la cottura sarà di nostro gradimento, cosa non di poco conto visto che proprio i francesi ci hanno insegnato che a seconda dei gusti la carne può essere bleu (molto al sangue), saignant (al sangue), a point (cottura media) o bien cuit (ben cotta). Bene, il pezzo intero di filetto del peso di 350 g, seguendo alla perfezione le indicazioni della ricetta, è risultato tra il bleu e il saignant, che per me va benissimo visto che mi piace proprio così, ma se avessi invitato a cena mia cognata me lo avrebbe tirato dietro dato che per lei la carne deve sempre essere bien bien bien cuit. E una volta affettata ormai è fatta, non si può più tornare indietro, i 20 euro di filetto vanno mangiati. Questo per dire semplicemente che, visto che su certi dettagli Csaba spende moltissime parole, avrebbe potuto aggiungere anche due parole in più sulla cottura, che ritengo essere una cosa molto più importante di tante altre.
Con una nota finale Csaba fa sfoggio della sua preparazione e ci dice “Ho imparato a sigillare la carne al Le Cordon Bleu – senza pungerla, sempre su fiamma alta e possibilmente senza grassi aggiunti. Il risultato è una carne più tenera e gustosa, perfettamente rosata al centro”. Ma è veramente questo che insegnano a Le Cordon Bleu? Quello che chiunque abbia un minimo di esperienza in cucina sa perfettamente? Quello che anche non sapendo cucinare è facile intuire, che se pungi la carne escono i succhi? 
  La considerazione finale che mi viene da fare è la seguente: in questa ricetta, come anche in quasi tutte quelle prese in rassegna nei giorni scorsi e che ho seguito con curiosità, emerge una mania di semplificazione, come se la semplicità in cucina rendesse tutto un po’ più chic. Come se l’intento di Csaba fosse quello di rivolgersi ad un determinato pubblico, fatto da persone a cui piace il suo stile ma che fondamentalmente non sanno cucinare. Forse per questo le sue ricette sono quasi sempre composte di pochi ingredienti, presentano pochi passaggi ed hanno un’esecuzione elementare. La descrizione di quei pochi passaggi è però esasperata, tutto è spiegato nei minimi dettagli, salvo poi omettere indicazioni fondamentali, come quella di fare raffreddare la padella prima di mettere a cuocere la panna, di legare la carne (o anche di non farlo, ma almeno spiegaci il perché), di scaldare la casseruola prima di mettere in forno la carne (visto che si dice che deve continuare a cuocere e in 5 minuti a 160° ciò non è possibile), di come risulterà la cottura. E la sensazione è come se l’autrice si prodigasse a descriverci nei minimi particolari dettagli banali e poi si dimenticasse di dire cose ben più importanti. È come se da una parte ci dicesse “adesso vi svelo i segreti che ho imparato a Le Cordon Bleu” e però poi disattendesse questa promessa, insegnandoci cose che chiunque abbia una minima esperienza in cucina già sa e invece tenendo per sé e non regalandoci qualche cosa di più interessante. È questa in definitiva la cosa che più mi indispettisce di questo libro, la stessa che ho riscontrato in altri libri di cucina usciti negli ultimi anni… il fatto di voler sembrare qualcosa che poi non sono, il fatto di trattare il lettore come uno sprovveduto incapace di rendersi conto di essere caduto in una trappola di marketing neanche troppo bene congegnata.
Nonostante quanto sopra detto, la ricetta è riuscita, la carne era buona, i funghi anche e alla fine è questo ciò che conta quando si segue una ricetta tratta da un libro di cucina. Non posso promuovere però Csaba per i motivi che ho esposto, ma non posso nemmeno bocciarla. E forse è proprio questa impossibilità di dare un giudizio netto che caratterizza questa ricetta, come probabilmente anche le altre di questo libro. Non si può bocciare, ma nemmeno promuovere, una ricetta così elementare, ecco, l’ho detto, elementare, questo è l’aggettivo che meglio descrive questo piatto. Ma noi, da una che non fa mai mancare l’occasione per dire a tutti quante cose ha imparato a Le Cordon Bleu, come ho già detto, ci saremmo aspettati molto di più. E quindi per me Csaba non è né promossa, né bocciata e nemmeno rimandata in quanto, per me, questa ricetta è:
INGIUDICABILE


martedì 22 aprile 2014

BROKEN PAVLOVA CON YOGURT E MIRTILLI



Nelle veste diRedoner del mese per la seconda volta (con mia grandissima gioia, mista ad un pizzico di ansia da prestazione…com’è giusto che sia!) mi accingo a mettere nuovamente alla prova la vostra pazienza con un’altra delle ricette contenute in Bon Marché e firmate dalla pacatissima dea del focolare nostrana Csaba Dalla Zorza. Non parliamo di una ricetta qualsiasi, però, ma addirittura del dolce preferito (cit. Wikipedia!) della chef più discussa sulle pagine dello Starbooks! E quale dolce pensate possa prediligere una raffinata signora d’altri tempi come lei, se non il dessert più elegante ed etereo in circolazione, ovvero la pavlova?
“Scontato!”, direte voi ma..attenzione, qui non parliamo mica di una pavlova come le altre ma di una “broken” pavlova! Ebbene sì! In soccorso di tutte le goffe pasticcere amatoriali che rovesciano inavvertitamente teglie di meringa riducendola in mille pezzi, la Csaba vi spiega come fare “buon viso a cattivo gioco” senza scalfire la vostra immagine di chef provetta davanti ai vostri ospiti.
Certo, sulla scia dell’Hot-dog fait maison (???) della scorsa settimana, devo confidare che c’è chi, leggendo il titolo nell’indice, ha pensato che la ricetta in questione avrebbe suggerito l’acquisto di meringhe industriali da fare in frantumi al momento di servire il dolce ma invece, fortunatamente, questa volta la nostra paladina di bianco vestita ha deciso di spiegarci effettivamente come preparare delle candide meringhe. Poi, però, le facciamo in frantumi senza pietà e chi s’è visto, s’è visto.
Lasciamo la parola all’autrice (e a qualche primissimo mio commento) e poi vi spiego un po’ cosa ne penso.
Questa ricetta è perfetta quando hai delle meringhe avanzate da un altro dolce. Ti basta avere in casa un po’ di yogurt e qualche frutto di bosco per trasformarli in un dessert che sembra più studiato di quanto non sia in realtà.”
 
Ingredienti per 8 persone:

80 g di albume
80 g di zucchero superfine
80 g di zucchero a velo
2 cucchiai di zucchero di canna
1 rametto di timo fresco (io ho usato timo limone)
1 cestino di mirtilli (non sarebbe meglio indicare i grammi?)
800 g di yogurt greco
1 cucchiaio di zucchero a velo

Accendi il forno a 110° (statico) tenendo fuori una teglia.
Rivestila di carta forno.
Metti il bianco d’uovo in una ciotola e unisci metà dello zucchero fine e metà dello zucchero a velo. Monta con un frullino elettrico, per circa 10 minuti.
Quando i bianchi saranno montati a neve ferma, setaccia lo zucchero fine e lo zucchero a velo rimasti direttamente sopra la ciotola e incorporali a mano, usando una spatola in silicone e procedendo dall’esterno verso l’interno.
Utilizzando due cucchiai, preleva una dose di meringa (a quanto corrisponde “una dose di meringa”, esattamente?) e spostala sulla teglia rivestita di carta da forno, precedentemente preparata. Prosegui così, creando circa 8 mucchietti di meringa che appiattirai leggermente con il dorso del cucchiaio per non avere troppe punte. In alternativa, metti la meringa cruda in una sac à poche con bocchetta stellata (la numero 15, ad esempio) e usala per creare delle meringhe a spirale. Inforna e cuoci per 70-75 minuti circa. Le meringhe devono asciugarsi restando bianche.
Nel frattempo, scalda sul fuoco una pentola con lo zucchero di canna fatto sciogliere in poca acqua (“poca” quanto??), unendo qualche fogliolina di timo fresco. Porta ad ebollizione e cuoci per 5-7 minuti, sino a che otterrai uno sciroppo appena un po’ denso. Buttaci dentro metà dei mirtilli lavati, cuoci per 30 secondi, poi spegni e togli dal fuoco. Lascia raffreddare.
Al momento di servire, rompi le meringhe nel piatto, copri ciascuna con 2 cucchiai di yogurt greco, irrora tutto con i mirtilli al timo e il loro sciroppo, poi cospargi con i mirtilli freschi tenuti da parte e lo zucchero a velo setacciato.
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Partiamo da una premessa: ho deciso di mettermi nei panni di una persona con poca esperienza tra i fornelli e, soprattutto, con poca dimestichezza con le rigide regole della pasticceria, a cui anche montare gli albumi a dovere per preparare una meringa può, giustamente, creare delle difficoltà. Alla luce di ciò posso dirvi che:
-       non sarebbe stato inutile, secondo me, spendere due parole in più sulla lavorazione degli albumi, spiegando innanzitutto che dovrebbero essere usati a temperatura ambiente (particolare non da poco!) e dando qualche indicazione su come verificare di avere ottenuto la giusta consistenza della meringa;
-       con le dosi e le proporzioni tra gli ingredienti indicate, si ottengono delle meringhe molto dolci, al limite dello stucchevole (per avere un metro di paragone, la ricetta classica della mitica Donna Hay prevede 220 gr di zucchero per 150 ml di albume, quindi la ricetta di Csaba usa all’incirca 50 gr di zucchero in più), anche se devo dire che l’acidulo dello yogurt greco e dei mirtilli aiuta molto a smorzare l’effetto;
-       dubbio amletico: quanto pesa un cestino di mirtilli? Quello standard, da supermercato è da 125 g, di solito, e secondo me per 8 mini-pavlove sono un po’ pochini ma, visto che Csaba non dà indicazioni precise, rimango col dubbio che forse i cestini che acquista lei al mercato sotto casa sua, a Parigi, pesino mezzo chilo!; 
il vero problema di questa ricetta, legato al punto di cui sopra, è lo sciroppo di mirtilli: innanzitutto, non viene indicata la quantità precisa di acqua da unire allo zucchero di canna e non si spiega se bisogna mescolare o meno (io sono andata ad occhio e la quantità di sciroppo ottenuto non è stata assolutamente sufficiente per irrorare le 8 pavlove); inoltre, “buttare” i mirtilli per 30 secondi nello sciroppo di acqua e zucchero (sempre senza spiegare se sia necessario mescolare)
   schiacciarli  leggermente per fare uscire un po’ di succo, fissarli sperando che il tutto si tramuti in un delizioso, denso sciroppo scuro,…) è veramente inutile, dato che per sfaldarsi avrebbero bisogno di ben altri tempi. Insomma, non so bene nemmeno io cosa si ottiene seguendo queste istruzioni. Forse un acqua e zucchero con mirtilli mollicci. Boh?!
-      l’idea della pavlova sbriciolata può anche essere carina ( e inutile nel caso in cui, davvero, per un qualsiasi motivo vi si rompano le meringhe o ne abbiate di avanzate) ma perdono di senso i suggerimenti sul fare circa (?) 8 mucchietti, livellarne la superficie per non avere picchi (se tanto poi le rompo, chissenefrega dei picchi!) o usare la sac à poche (anche solo per non dover lavare tutto una volta finito).

Insomma, la pavlova in sé è buona, perché come dicevo lo yogurt greco ed i mirtilli profumati al timo contrastano la dolcezza per me eccesiva della meringa ma data la solita approssimazione e le mancanze nella spiegazione dei vari passaggi (soprattutto in relazione allo sciroppo), per me questa ricetta è